OCSE, medici specialisti

Ieri l’ottimo Beppe Severgnini è stato a Barcellona e, dopo aver parlato con qualche individuo selezionato, è tornato affabulando:

Il numero dei medici italiani negli ospedali locali […] è impressionante. Vivono sereni, lavorano bene, vengono pagati il giusto. […] Le coppie con due o tre figli sono la norma […].

Fandonie.

Non solo i bambini scarseggiano in Spagna come dovunque in Occidente (vedi Figura in fondo al post), ma i medici sono pagati come nel resto dell’EU e all’incirca come da noi, vide supra. E comunque anche i medici spagnoli emigrano alla grande, anche più dei nostri. Non solo. Forse Beppe non considera, tra i medici italiani a Barcellona, i due-tremila ragazzi italiani che ogni anno si laureano là in Professioni sanitarie per evitare i test selettivi e che non possono esercitare in Italia senza opportune abilitazioni.

Non sto negando che in Italia ci sia un grave problema che affligge il SSN: sto dicendo solo quello che ho detto e che è molto diverso da quanto riferito da un navigato e autorevole esponente del Corriere della Sera.

I media non hanno ancora capito il mondo globale e le sue dinamiche spicciole, familiari. Per esempio, che le persone si spostano molto di più di un tempo. La mobilità dei lavoratori è assicurata nell’EU dai primordi, ma il Trattato di Schengen prima, la Convenzione di Bologna poi, e l’Euro dopo hanno allargato e potenziato i flussi negli ultimi decenni.

Inoltre, i media sono quasi sempre falsari inconsapevoli che scambiano per “realtà locale” ciò che vedono attorno a sé dopo essersi recati in luoghi studiatamente prestabiliti, con appuntamenti preordinati, la testa piena di luoghi comuni e pregiudizi che si prefiggono di confermare, e animati dalla più candida ignoranza possibile dei dati sociologici che potrebbero, dovrebbero procurarsi prima di partire.

Funziona così: Faccio una trasferta in Uk? Fissatemi appuntamenti con qualche ricercatore italiano che lavora là. E il nostro eroe tornerà con un servizio che conferma quello che tutti i colleghi ripetono pappagallescamente sin dall’epoca della (pelosa) Lettera di Pierluigi Celli al figlio nel 2009, ossia che i nostri giovani talenti sono tutti all’estero: però danesi, olandesi, polacchi, che sono molti di più, non li ha notati affatto. Vado in Catalogna? Fissatemi incontri con un paio di medici italiani in Spagna. Ed ecco la “inchiesta” sui medici italiani che vivono colà alla grande, continuando a non sapere nulla dei medici spagnoli all’estero, o degli altri.

Anche le frequenti coppie con due-tre figli a Barcellona notate da Severgnini è una fanfaluca. Come in Italia, come in Francia, come in un po’ tutto l’Occidente, in Spagna la natalità è sotto la soglia della crescita da quasi mezzo secolo. Lo ricordiamo qui da molti anni. Forse Beppe siede ai giardinetti solo a Barcellona: se lo facesse anche a Milano, osserverebbe la stessa (striminzita) quantità di bambini.

Ma ricordiamolo: “Dear God, never let the facts get in the way of a good story” è il motto non scritto (salvo che al Circolo della stampa estera a Washington) del giornalismo. Oggi costuma raccontare determinate storie, sicché ogni pretesto è buono per ribadirle pedestremente.

(Seppure sotto la soglia dello sviluppo autoctono, la Francia va un po’ meno peggio perché ha molti più cittadini di seconda e terza immigrazione, più prolifici.)

DBNK 3

Pubblicato: 17 aprile 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni, Politica e mondo
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Prosegue la raccolta delle leggende metropolitane che ci dilettiamo a disvelare.

La metà degli italiani non paga le imposte sui redditi: E’ vero, ma ciò viene sistematicamente interpretato come un effetto dell’evasione fiscale. La quale invece non c’entra. In tutti i paesi avanzati, per effetto di esenzioni, deduzioni e detrazioni i cittadini che versano almeno €1 di IRPEF all’anno sono meno della metà. E tanto più nei paesi con uno sviluppato welfare.
Le imposte pagate vanno ad alimentare in parte i servizi pubblici come scuola, salute, infrastrutture, giustizia, forze armate, P.A. e in parte i meno abbienti. Avete mai visto le file al check-in degli ospedali, ai CAF, all’INPS, alle questure, magari trovandovi accodati, voi fedele contribuente, dietro centinaia di neo-immigrati o di artigiani che pagano tasse risibili? E’ lo Stato sociale, una risorsa della quale, secondo le statistiche OCSE, il 20% dei residenti utilizza l’80%.
Insomma, in EU e dintorni: la metà dei residenti non paga una lira di imposte (per effetto della redistribuzione) e un residente su cinque utilizza il grosso del welfare.
La stragrande parte degli evasori fiscali, in Italia, non pagano zero tasse: si limitano a pagarne molto meno di quel che dovrebbero. Ecco perché essi, pur essendo una sorta di malviventi, non sono da annoverare nel lotto di chi paga zero IRPEF.

La «vera» evasione la fanno le multinazionali ammerigane e le grandi aziende: Lo si apprende da G. Meloni, M. Salvini e dall’idraulico. Ma la logica da V elementare e gli economisti dell’Agenzia delle Entrate ci dicono che le imprese (che come sappiamo sono soprattutto piccine) evadono 27 miliardi l’anno e i cittadini 56. 😉

Giovanni 11:25

Pubblicato: 11 aprile 2024 da Paolo Magrassi in Uncategorized

Woody Allen e un orafo ebreo, filosofeggiando animatamente in non so più quale film, ricordano in quante e quali tragiche discussioni ci si infili in fatto di religione anche solo per motivi banali. I gentili, per esempio, scatenarono una disputa plurimillenaria intorno al concetto di Maria vergine, laddove in realtà nel testo originale, forse neppure greco bensì aramaico, il termine vero era donna giovane. 😂

Scendendo nel micro: Oggi a un funerale mi sono imbattuto in questa lapide:



Per il mio gusto, quel “anche se morisse” è inguardabile. Come minimo, è retorica sprecata: ma forse semplicemente uno strafalcione. Chi è che non muore? Anche i cristiani muoiono, anche i credenti.

Sebbene io non sia credente, trovo che per esprimere fede nella vita eterna, o nella resurrezione della carne, eccetera, non ci sia alcun bisogno di inventarsi una grammatica né arzigogoli fumosi. Siamo a casa di Lazzaro. E’ Gesù che parla. Siamo seri!

Secondo la lezione prevalente, il testo greco è Ἐγώ εἰμι ἡ ἀνάστασις καὶ ἡ ζωή· ὁ πιστεύων εἰς ἐμέ κἂν ἀποθάνῃ ζήσεται e tutto dipende da quel “κἂν ἀποθάνῃ“.

Ἐγώ εἰμι ἡ ἀνάστασις καὶ ἡ ζωή· = Io sono la resurrezione e la vita
ὁ πιστεύων εἰς ἐμέ = Chi crede in me
κἂν ἀποθάνῃ = anche se muore / una volta morto /anche da morto / anche se è morto
ζήσεται = vivrà

Tradotto alla lettera, κἂν ἀποθάνῃ può venire “anche se muore”. Però il traduttore, se è preoccupato dell’apparente assurdità dell’asserto causata dalla concessiva, può rimediare rendendo con “una volta morto” oppure “anche da morto” o, come nel testo sul quale ci faceva studiare don Teo Marchini al liceo, “anche se è morto”.

Ma quel “chi crede in me, anche se morisse, vivrà” non si può proprio leggere. E a me non garba neppure “anche se muore”. Sebbene qui mi stiano accusando di dogmatismo e cocciutaggine. (Dico qua al bar, non al cimitero). E’ davvero così?

Ivar Giaever, mio amicone

Ieri una imbarazzante trasmissione di La7 invitava a parlare di transizione ecologica un’esperta e, suppongo per fare audience creando casino, Massimo De Manzoni, vicedirettore de La Verità ed esponente minore del movimento Liberateci da Al Gore.

De Manzoni era funzionale alla baruffa in quanto negazionista dell’origine antropica del cambiamento climatico. E’ un po’ come essere negatori dei quark in fisica. E in effetti il De Manzoni sta alla fisica delle alte energie come sta alla fisica dell’atmosfera: ne sa una cippa e non conosce alcuno che ne sappia.

Il suo fondamentale argomento negazionista sta in una «lista di duemilacinquecento scienziati, compresi premi Nobel», che la pensano come lui. E’ una notizia degna di Bufale Un Tanto Al Chilo, che infatti credo la sbugiardasse quando uscì. Ma posso farlo anch’io facilmente.

Intanto, De Manzoni si mostra arruffato e acalculico, ignorando che al mondo le persone che possono definirsi scienziati sono dell’ordine di cinquanta milioni. Se duemilacinquecento firmano un manifesto, allora vuol dire che cinque scienziati ogni centomila hanno firmato. A voi pare tanto? Trovate strano che tra tanta gente, se ne possa trovare una frazione infinitesimale disposta a firmare qualsiasi affermazione?

Ma andiamo avanti.

Stiamo parlando di un manifesto messo in circolazione uno o due anni fa, sottoscritto non da 2500 bensì da 1100 persone. Le quali non erano neppure tutte scienziati. Vi si annoveravano moltissimi giornalisti, politici, influencers, piloti d’aereo, tecnici dell’industria gaspetrolifera, pescatori, PhD diplomatisi online, studiosi del piffero per i quali Fourier è uno chef e Arrhenius una malattia gastroenterica, e geologi che nel 1990 non avrebbero passato la Maturità da geometra. Una lista divertente da scorrere.

C’erano solo 10 climatologi e nessuno scienziato di gran calibro, di quelli la cui opinione stiamo ad ascoltare anche al di fuori del loro settore professionale. Anzi, no, uno c’era! Esattamente uno solo. Era questo il Nobel cui accennava il nostro Massimo De Manzoni, che lo declinava al plurale per rendere più convincente la sua coorte e perché in fin della fiera ha capito una cippa dell’intera questione e sicuramente avrebbe già sviluppato un’emicrania leggendo sin qui se mai mi leggesse.

La mosca bianca era Ivar Giaever, Nobel per la fisica 1973. A me molto simpatico. Quando aveva 82 anni lasciò la American Physical Society perché il Global Warming era un taboo politically correct: «Nell’APS è ok dibattere se la massa del protone cambia nel tempo o come si comporta un multiverso [due cose estremamente stravaganti, NdT], ma l’evidenza del riscaldamento globale è indiscutibile!».

Aveva ragione e fece bene a sbattere la porta. È irritante e inaccettabile che in un consesso di fisici, da sempre gli studiosi più spregiudicati e aperti, non si possa discutere di qualcosa per partito preso.

Da allora il Global Warming gli sta sulle balle e ne ha tutto il diritto -non solo per i suoi 94 anni!

Il capriccio di Ivar Giaever è il solo appiglio che si reperisce in quella patetica lista, per corroborare la tesi preconcetta che Massimo De Manzoni coltiva granitico: il riscaldamento globale in corso è una fluttuazione ordinaria e l’attività umana c’entra poco. Eh eh.

Abbiamo capito che egli non è un campione di pensiero critico. Se ne infischia che nei comitati dell’IPCC pullulino i fisici dell’atmosfera, né sa cosa sia la fisica né beninteso l’atmosfera (dentro la quale la vita dei mammiferi è abilitata dalla presenza dei gas serra). E s’impippa, anzi probabilmente ignora che 75 Nobel misero per iscritto già nel 2016 il loro pubblico sostegno a quelli dell’IPCC.

Semplicemente, innamorato di un vecchia ipotesi da tempo trasformatasi in consunto credo, si attacca a uno che, centenario e con fare semiserio, prende per il sedere lui e tutti noialtri assieme. E La7 invita lui, Massimo De Manzoni, a discettare di cambiamento climatico. Immagino che in gennaio, al dibattito sul Giorno della Shoah avessero un naziskin come controparte di Liliana Segre.



US NOAA, 2018
La concentrazione di gas serra è schizzata in alto solo in corrispondenza della rivoluzione industriale in corso. E il riscaldamento in atto è circa dieci volte più rapido della velocità media dei riscaldamenti avvenuti alla fine delle ultime sette ere glaciali
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Keef Byron

Pubblicato: 3 aprile 2024 da Paolo Magrassi in Uncategorized
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(©️) Newstead Abbey; Supplied by The Public Catalogue Foundation

Sarebbe stata Lady Caroline Ponsonby, una delle innumerevoli amanti, a dire di Lord Byron «Mad, bad, and dangerous to know». Nick Kent del New Musical Express affibbierà la stessa etichetta a Keith Richards negli anni Settanta del secolo successivo.

In entrambi i casi, la definizione mi appare calzante eppure contraddittoria. Mi sembra che essa al tempo stesso descriva e tradisca sia lo scapestratissimo poeta sia il Re dei Riff.

Leggendo Life qualche anno fa, e ascoltando numerosi dialoghi con e interviste a Richards via Youtube nell’ultimo quarto di secolo, Keef appare bonario, affabile, ragionevole, controllato. E anche George Byron è il Dr Jekyll di sé stesso mentre appare alla bisnonna di Gozzano nei giardini della villa

Chi viene? Ecco nel folto delle verdi piante
un giovane bellissimo avanzare
(Anima, non tremare, non tremare.)
ed il suo passo è un poco claudicante.

Chi viene dunque ai sogni ed all’oblio?
(Anima, non tremare, non tremare.)
Ha l’iridi color di verde mare;
nelle sembianze è simile ad un dio.

Bella forza, direte voi: te lo vedi Byron che si appropinqua per la prima volta a una donna in modo men che rassicurante anzi affascinante? E Life non è stato scritto, edito e riedito da James Fox? E i filmati Youtube, tu te li immagini uploaded così come mamma li fece? Come on! 😉

Torniamo sul punto. Non pontificando o inventando, ma rifacendosi a fonti minimamente informate e forse credibili anziché alla fuffa mediatica. Si parla dei problemi neuropsichiatrici degli adolescenti e del loro presunto dilagare, soprattutto in relazione agli smartphone e ai social.

Adesso il gruppo Springer Nature pubblica una recensione del libro che sta creando ansietà nei genitori anglofoni e che anzi, secondo Michael Shermer, quello di Skeptic Magazine,

sta artatamente creando «la patologizzazione di cose per le quali gli adolescenti hanno sempre spfferto (riprendendosi rapidamente), e che invece oggi vengono etichettate con diagnosi come depressione, ADHD, autismo, disturbi d’ansia, ecc., dando vita a un circolo vizioso in cui agli adolescenti viene chiesto di rimuginare, meditare e crogiolarsi nelle proprie emozioni negative, cosa che non fa altro che alimentare il problema». [La tesi che sommessamente faccio mia quando parlo di bamboccionesimo].

..

Il libro che rimestola nel fango “artatamente creando” condizioni psichiatriche è The Anxious Generation di Jonathan Haidt e la recensione di Nature è affidata alla profe di scienze psicologiche e informatica Candice Odgers della University of California Irvine, della quale è anche vicerettore per la ricerca. Ecco la mia sintesi del suo dire:

«Un’analisi condotta in 72 paesi non mostra alcuna associazione coerente o misurabile tra il benessere e la diffusione dei social media a livello globale. Inoltre, i risultati dello studio Adolescent Brain Cognitive Development, il più grande studio a lungo termine sullo sviluppo del cervello adolescenziale negli Stati Uniti, non ha trovato prove di cambiamenti drastici associati all’uso della tecnologia digitale. Haidt [l’autore del furbo best seller menagramo, NdT], psicologo sociale della New York University, è un narratore di talento, ma il suo racconto è attualmente alla ricerca di prove».

https://www.nature.com/articles/d41586-024-00902-2

QED.

Odgers mette anche in evidenza l’abuso di correlation as causation di cui l’autore si macchia, non sappiamo se per furbizia o per ignoranza (ma gli concederei il Rasoio di Hanlon), per comporre la quantità industriale di grafici coi quali lardella il libro, che in tal modo diventa irresistibile per il circo mediatico.

Come sappiamo, già l’Economist aveva analizzato i dati e trovato nessuna relazione tra l’abuso delle tecnologie e la condizione mentale degli adolescenti.

Ridaje coll’X Factor

Pubblicato: 31 marzo 2024 da Paolo Magrassi in Uncategorized
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Ormai si è capito che sono fissato coll’X Factor, no? Tra le sue vittime, ho già detto del povero Dick Rowe, the man who turned down the Beatles nel 1962 e di Italo Calvino, pochissimi anni dopo. Altre perle, poi, ho elencato qui. (Sto anche spulciando opere per me incomprensibili di Michel Talagrand, alla ricerca di lumi intorno al problema).

In questi giorni, vedendo il film di Tornatore su Ennio Morricone, apprendo che Franco Zeffirelli, non precisamente un incompetente di musica, per il suo Gesù di Nazareth rifiutò quello che sette anni dopo sarebbe stato il Tema di Deborah di C’era una volta in America.

La circostanza è tanto più curiosa in quanto dal lavoro di Tornatore si apprende che furono proprio le musiche di questo film a far ricredere gli enfants terribles che, come lui allievi di Petrassi, avevano snobbato Morricone per la sue scelte pop come la musica per il cinema.

Tornatore ci mostra Boris Polena dire che “solo un grande compositore poteva avere scritto” la musica di Once Upon A Time In America. E fu proprio Boris a vergare di pugno la lettera di autocoscienza, rivelazione, e pentimento che farà piangere il collega.

E ridere i posteri. Ma non è giusto, è il terribile X Factor in azione.

Lo stesso Morricone ne fu più volte vittima. Per esempio, tentò di dissuadere Patroni Griffi dall’impiego del Leitmotiv di Metti una sera a cena, che gli aveva proposto frammisto ad altri ma che gli era venuto in odio. Patroni Griffi, dandogli del matto, pretese di utilizzare il brano, che si rivelò un grande successo. Da allora, Morricone affidò per prima a sua moglie il giudizio sulle musiche da film che veniva componendo: dal 1969, registi e produttori del cinema udranno solo le proposte approvate da Maria Travia Morricone.

Per rimbrottare il NY Times, che nell’elencare i protagonisti della nuova intelligenza artificiale aveva citato dodici maschi e zero femmine, Repubblica ha inaugurato l’8 marzo 2024 il suo Catalogo delle Donne Italiane che Hanno Detto “Intelligenza Artificiale” Almeno Una Volta.

Il corpus annovera la sen prof avv Anna Maria Bernini, oltre a politologhe, curatrici d’arte, enologhe, direttrici assortite. Per il momento la lista è ferma a un’ottantina di nomi ma crescerà, visto che chiunque può aggiungerne scrivendo a desk@italian.tech .

Repubblica critica un presunto maschilismo del NY Times, senza però capire che l’intento era quello di segnalare i principali creatori della tecnologia AI moderna, non i suoi utilizzatori e neppure i commentatori, ammiratori, detrattori, tuttologi.

E siccome in Occidente le ragazze che studiano informatica sono un quarto dei ragazzi, in un elenco qualsiasi di informatici dovremmo tendenzialmente attenderci un venti percento di donne e un ottanta percento di uomini. Non possiamo aspettarci cinque femmine ogni cinque maschi. (E mi perdonino gli LGBTQ+).

Intendiamoci: non appena uno stila una classifica qualsivoglia, di canzoni scuole personaggi ospedali eccetera, arriverà subito un altro che la critica! La prima critica che viene in mente a me sull’elenco del NY Times è che una metà dei guru fondanti non vi compare affatto, sostituita da businessmen che hanno investito un po’ su tutto, non solo sull’AI.

Repubblica non critica il NY Times per quella ragione, bensì perché non si citano donne. L’avessi stilata io, e anche lontano dall’8 marzo, non mi sarei fatto scappare Fei-Fei Li, e forse Mira Murati oppure Melanie Mitchell. (Ma Repubblica avrebbe criticato anche me, perché voleva 6 donne, senza alcun riguardo per i contributi).

Repubblica lamenta inoltre che quando si parla di Anthropic, famosa spinoff di OpenAI fondata da Daniela e Dario Amodei, si cita sempre il fratello e quasi mai la sorella. Sembra un particolare insignificante ma in realtà è una conferma della superficialità dell’approccio del nostro quotidiano: Dario è un importantissimo progettista di AI mentre Daniela ha un profilo amministrativo, gestionale.

Io credo che l’8 di marzo, anziché intonare marcette orecchiabili ma stonate, dovremmo chiederci:

  • Come mai nel 1980 le ragazze erano il 40% e oggi sono il 20, mentre l’informatica è diventata più importante di allora nella società? (Per un abbozzo, in verità flebile, di spiegazione, vedi l’ultimo paragrafo di questo post )
  • E’ necessario o no che le donne pervadano il 50% dell’informatica, per assicurare pluralità/diversità agli esiti delle applicazioni software (AI inclusa)?
  • E se risultasse che è necessario, come potremmo raggiungere il risultato? Costringendo le ragazze a studiare informatica? O aumentando a dismisura i loro ruoli manageriali nel settore? Oppure istituendo ‘polizie morali’ che assicurino l’equità di genere mediante modifiche ex post al software (come vorrebbero i fanatici che parlano di ethics of AI)?

Bulls on parade

Pubblicato: 20 marzo 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni, Politica e mondo
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Lyudmila Pavlichenko, il più letale cecchino della storia

Con simpatico piglio vannaccistico, un senatore neofascista ha affermato che la «femminilità» del presidente Macron contrasta con le recenti «muscolari» dichiarazioni con le quali costui prospettava l’eventualità di un intervento armato in Ucraina.

Il senatore è immemore che il suo muscolare Caro Leader tentò di svignarsela all’estero travestito da soldato semplice. E che lo fece dopo aver sostenuto la stupida visione strategica di un demente che dichiarava guerra a tutti prendendole di santa ragione; promulgato leggi razziali in un paese che è un miscuglio di razze; aggredito la Francia mentre la Wehrmacht bivaccava a Parigi; provocato “la prima sconfitta dell’Asse” (Mark Mazower) con una fallita aggressione alla Grecia.

E poi, piano con le parole. Le donne sono meno muscolose degli uomini ma possono occasionalmente essere bulle come loro (un po’ come la di lui cara leader attuale, pur femmina), o anche vere combattenti e persino capi militari: vedi Artemisia di Alicarnasso, Cleopatra, Isabella II di Borbone, Guglielmina dei Paesi Bassi, Queen Victoria, Milunka Savić, Alexandra Kudasheva, Lyudmila Pavlichenko, Indira Gandhi, Golda Meir, Maggie Thatcher (tutte madri), nonché le donne curde della Women’s Defense Unit, che nel 2014-2015 furono tra le pochissime persone a combattere sul terreno l’ISIS, che faceva cacare nelle mutande l’intero Occidente.

Si può essere muscolari nel senso di semplici bulli oppure muscolari che dan seguito alle chiacchiere. Nell’eventualità di una guerra dentro l’EU iniziata da chicchessia, e ove gli odiati yankees evitassero di coprirci il didietro, quasi quasi io mi accontenterei di un Macron bullo: del suo fascino mi interesserebbero meno le doti fisiche o quelle pianistiche e molto di più le risorse della Marine nationale, come la Charles de Gaulle e specialmente i sottomarini a testate nucleari. Questi sarebbero i soli muscoletti (da impiegare quali deterrenti, s’intende) che potremmo mostrare al Vladimir di turno noi “pacifisti“.

Eurostat, Gender Pay Gap Statistics

La furia di voler spiegare tutto con un numeretto ci porta spesso a dire (e pensare) sciocchezze.

Ecco qui sopra Eurostat, di cui vedete la statistica 2022, affermare che le donne italiane sono le meno socialmente penalizzate di tutta l’EU: tre volte messe meglio della media e quattro volte più delle finlandesi e delle tedesche.

C’è qualcuno disposto a credere a questa favola?

Quel dato è assurdo perché il numeretto che Eurostat chiama Gender Pay Gap (e che scientificamente si chiama Gender Earnings Gap) dipende dalle strutture sociali delle nazioni considerate, senza le quali i confronti possono tingersi di ridicolo, proprio come questo istogramma.

Il numero italiano va rivisto considerando fattori locali come: la particolarmente bassa partecipazione femminile alla forza lavoro; il lavoro in nero; il peso delle microaziende (Eurostat considera solo quelle con più di dieci dipendenti); la elevata proporzione di lavoratrici italiane che sono impiegate nella PA, dove la parità è assicurata.

Disuguaglianze immaginarie

Succede anche con le disuguaglianze. Arriva uno, che sia il Financial Times o l’ultimo straccio di blogger, e posta una chart colorata che pretende di chiarire come vanno nel mondo le disuguaglianze reddituali. Milioni di LIKE.

Ma quasi nessun lettore pensa che un paese con un coefficiente di Gini bassissimo (= bassa disuguaglianza) può essere un paese in cui quasi tutti sono poveri. Infatti, nelle figure a colori che i media adorano, Bangladesh, Niger e Chad appaiono più “equi” della Danimarca. 😉

Non solo: la disuguaglianza va calcolata dopo le imposte, perché queste abilitano il welfare (essere poveri in Scandinavia o in Usa, fa una bella differenza). Solo così si capisce che gli Usa non sono più equi della Finlandia né la Turchia dell’Italia.

Sulle disuguaglianze, qui sotto trovate una grafica colorata più sensata e utile di quelle che solitamente si stampano.


Gini reddituale prima e dopo le imposte

Ma poi, e questo non lo dice neppure la nostra grafica “intelligente”, il coefficiente di Gini è influenzato anche dalla struttura demografica: per esempio, pochi lavoratori e molti cittadini inattivi, innalzano artificiosamente l’indice di disuguaglianza del paese.

Prima ancora dell’attitudine all’analisi dei dati, ci difettano il buon senso e persino lo humor. Il giornalista si dovrebbe chiedere se sta per caso sbagliando a interpretare la statistica prima di pubblicare un’infografica, per quanto belli siano i suoi colori. E ogni media dovrebbe decidersi a scritturare un giovane con dimestichezza nell’analisi dei dati.

La condizione femminile in un solo numero

E’ difficile che un solo numero possa dirci tutto, anche se esistono numeretti pregnanti che, se abbiamo fretta, ci aiutano a capire qualcosa di un contesto.

Le statistiche sul divario di guadagno, spesso chiamato erroneamente Gender Pay Gap, ci forniscono con un semplice numero un’indicazione molto utile di quanto le donne di un determinato paese siano penalizzate nella vita sociale (e lo sono quasi dovunque).

Però sono stupidaggini le frasi come le donne sono pagate all’incirca il 22% in meno degli uomini (EPI, 8 marzo 2024). A parità di lavoro e di tempo lavorato, le donne non sono meno pagate se non in rari casi.

Il vero problema è che, sempre in media, a fine anno avranno quasi sempre guadagnato meno, soprattutto perché le loro carriere sono distorte dalle cure dei figli, degli anziani, della casa, con la conseguenza che molte donne si rincantucciano in lavori modesti (segretaria, commessa, cassiera, badante, colf, …) mentre gli uomini svolgono la gran parte di quelli più pagati. Ed ecco che, sommando gli incassi dei due generi e anche dividendoli per le ore lavorate, si trovano le donne essere più povere di un 12,5% (Eurostat).

Questo divario di guadagno annuale ci offre un’indicazione sintetica, sebbene sommaria finché si vuole, della condizione femminile in una società.

Frasi come quella là del pasionario Economic Policy Institute,

  • sono fastidiose perché insinuano surrettiziamente che le donne siano pagate in media il 22% in meno degli uomini per lo stesso lavoro e con qualifiche equivalenti
  • fanno male alla causa della parità di genere perché i media più conservatori smascherano facilmente la falsità e diffonderanno la diceria che tutte le statistiche sul Gender Pay Gap sono farlocche

E’ particolarmente dannoso quando a propugnare frasi come quella sono dei ricercatori: essi sanno di ciurlare nel manico ma titolano così i comunicati stampa per avere copertura mediatica. La quale puntualmente arriva. Sotto forma di titoli roboanti buoni per l’8 marzo. E sbagliati.

Disforia mediatica

Pubblicato: 15 marzo 2024 da Paolo Magrassi in Uncategorized
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Il Policlinico Gemelli di Roma, uno dei migliori ospedali italiani, apre un Ambulatorio Multidisciplinare per la Disforia di Genere, «dedicato a giovani che presentano difficoltà nella strutturazione della propria identità personale e di genere e alle loro famiglie, […] in un mondo sempre più difficile da abitare». Comprendo l’opportunità affaristica (il Gemelli è privato) ma discordo con la scorata affermazione sociologica, che non è confermata dall’evidenza empirica ed è corroborata solo dalla funesta grancassa mediatica, interamente dedita a crogiolarsi nelle sciagure.

Le battaglie Diversity Equity and Inclusion non hanno solo generato fanatismi e idee mostruose. Hanno anche fatto capire alle masse questioni come il potenziale del riscatto femminile, il senso profondo del razzismo, o la sussistenza di alcuni generi intermedi tra i due soli riconosciuti sino a pochi decenni or sono, maschio e femmina. Un mondo siffatto sarà forse più complicato, ma di certo non “sempre più difficile da abitare”. E’ semmai più accogliente e conciliante.


Colgo l’occasione per ricordare che il mondo, pur manifestando alcuni difetti congiunturali (come il calo della democrazia dopo secoli di impetuosa crescita) è globalmente migliorato assai dal 1800 a oggi.

Vedi la Figura grande sotto il titolo, che ci parla di povertà, istruzione, democrazia, sopravvivenza. O vedi quella qui di fianco, che ci dice della guerra e che mostra come dal 1946 ce ne siano state già tre più devastanti di quelle ora in corso.

Anche le famose “disuguaglianze”, se si assume quale proxy (come fanno tutti) la caracollante metrica del coefficiente di Gini sui redditi a parità di potere d’acquisto, sono da un quarto di secolo in discesa in tutti i paesi più popolosi o sono quantomeno stabili, se si considera il rialzo dovuto alla pandemia.

(Le disuguaglianze reddituali, invece, sono dafvvero un problema in Italia, mentre i discorsi un po’ ad minchiam si concentrano più spesso su quelle patrimoniali).

TheDigitalArtist, Pixabay

Le ragazze sono lievemente meno brave dei ragazzi in matematica, di circa un cinque percento. La constatazione perdura da molti decenni, registrata da test su grandi coorti ad età comprese tra i quattordici e i venti anni. Parliamo di metriche come NAEP, SAT, GRE, GMAT, PISA, e così via.

La differenza si nota soprattutto nei test non collegati al programma scolastico e quindi meno dipendenti da quanto si è studiato. Emerge più facilmente nei problemi che richiedono il ricorso a creatività e personalizzazione dei metodi solutivi. Ed è più marcata —diciamo più un dieci che un cinque percento— tra i più bravi che non tra i medi e i mediocri. (Ossia: tra coloro, maschi e femmine, che sono bravi in matematica, i ragazzi sono del dieci percento più bravi delle ragazze).nota

L’argomento è una specie di taboo nei paesi maggiormente attenti a diversità, equità, inclusione. Negli Usa, addirittura, in stati come la California e alcuni del Nordest, nel corso dell’ultimo quarto di secolo il DEI è diventato un’ossessione con addetti che somigliano più ai pasdaràn della rivoluzione iraniana che non a capi del personale, dirigenti scolastici, rettori o magistrati.

I bigotti del DEI temono che la diffusione della consapevolezza dell’essere le ragazze un po’ meno brave in mate possa portare a una convinzione definitiva e incrollabile delle limitazioni del genere femminile. E forse non si sbagliano di troppo, visto che su quel misero 5% sono probabilmente fondate le raccomandazioni di famiglie e professori malaccorti quando dicono alla bambina: “Non fa per te!”.

Ma si tratta una paura sciocca per molti motivi.

Per esempio, dalla constatazione che le ragazze siano più brave a leggere e scrivere, migliori a scuola in generale, più toste e più duttili fisicamente, più resistenti al dolore, e più empatiche, non concludiamo che i maschi siano un genere inferiore. Inoltre, il fatto che le donne prendano in media 95 punti anziché 100:

(a) non stabilisce una distanza rimarchevole

(b) è solo una media. Nulla vieta che possano esserci, come in effetti ci sono, parecchie donne più brave della media maschile in mate

(c) non ha impedito a Maryam Mirzakhani (2014), a Maryna Viazovska (2022) e a Karen Uhlenbeck (2019) di vincere la Fields Medal o l’Abel Prize, a Marie Curie (1903), Maria Goeppert-Mayer (1963), Donna Strickland (2018), Andrea Ghez (2020), a Anne L’Huillier (2023) di vincere il Nobel per la fisica, a Fabiola Gianotti di dirigere il CERN e a Lia Merminga di dirigere il Fermilab, a Priyamvada Natarajan di diventare il più autorevole astrofisico di Yale, a Renata Kallosh di impressionare due continenti con i suoi contributi alla supergravità e alla teoria delle stringhe, a Nergis Mavalvala di intercettare le onde gravitazionali al Caltech, e qui mi fermo perché la lista sarebbe interminabile. NB: sono tutte donne elette o valutate soprattutto da uomini…

(d) e soprattutto consente a qualunque ragazza che in mate non sia una schiappa di diventare una matematica o una fisica o un’informatica eccetera.

Alle ragazze, dunque: lasciate perdere le differenze del 5% e fate lo studio che vi appassiona maggiormente. Se possibile, una volts scelta la materia, che sia STEM o altro non importa, andate nella scuola più difficile, non in quella più facile.

E a voi bigotti, pasdaràn, suoracce e fratacchioni del DEI, impacciati pifferai dell’8 marzo: voi altri siete i guastatori delle cause giuste. Quando amiamo davvero una causa e vogliamo sostenerla, non dobbiamo affatto sottacerne i possibili punti deboli: dobbiamo metterli alla ribalta e demolirli uno per uno. E di quelli che non si possono demolire o confutare, è meglio avvertire subito i nostri adepti, per evitare che ne vengano a conoscenza per opera degli avversari della causa: perché allora gli adepti delusi saranno persi per sempre e anzi diventeranno i peggiori detrattori della causa stessa.


[nota] Mentre mi sono in parte note alcune differenze etniche rilevate in fatto di inclinazione a logica e matematica, non conosco analisi che siano andate oltre la separazione in due soli generi delle coorti analizzate.

La UE ha detto almeno dieci anni fa che il 2035 sarebbe stato la data critica per l’inizio della conversione dei trasporti. Le aziende automotive sono state elefantiache nel reagire e oggi sono ipocrite nel sottacere il proprio colpevole ritardo.

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I primi atti formali UE che indicavano il 2035 come data critica nella transizione ecologica dei trasporti risalgono al 2014. Vedansi ad esempio la Direttiva 2014/94/UE e il Regolamento (UE) n. 333/2014. (I Regolamenti sono molto più forti delle Direttive, avando la dignità di leggi negli Stati membri. Di una Direttiva, invece, i singoli stati possono adottare leggi e regolamenti diversi per recepirla, purché raggiungano il risultato previsto).

In particolare, con il Regolamento 333/2014 il Parlamento diede alla Commissione la possibilità di introdurre un divieto di produzione dei veicoli a cambustione interna non prima del 2035. Come tutti gli altri, questo Regolamento era stato proposto dalla Commissione ma fu poi discusso e modificato sia dal Parlamento sia dal Consiglio d’Europa (ossia i governi degli stati membri). Vi ebbero voce in capitolo, come accade sempre, anche il Comitato economico e sociale europeo, il Comitato delle regioni europee, il Parlamento europeo dei giovani, le organizzazioni della società civile e le ONG, attraverso consultazioni vis à vis e/o via web mediante gli strumenti organizzativi deputati.

Insomma: l’idea che a un certo punto si dovesse smettere di andare a nafta e benzina, nata in sede Onu/IPCC già da decenni, si consolidò nell’Europa dei 27 dieci anni fa e non già a opera di oscuri burocrati superpagati e magari corrotti dai cinesi, ma con voto a maggioranza del Parlamento e con l’assenso unanime degli Stati membri. Sul 2035 come anno di svolta si può ridiscutere (anche se è rischioso per l’ambiente), ma la data non è una sorpresa recente e quella nuova che potremmo eventualmente fissare sarà comunque tale da far emergere ancor di più l’arretratezza dei costruttori e la condizione deludente dei politici e dei media con loro schierati.

Direte voi: Perché mai le case motoristiche sarebbero state così sciocche?

Io sono stato per un quarto di secolo, lavorando soprattuto in USA, un analista dell’impatto delle tecnologie emergenti sulle imprese e sulla società. Sul tema sono anche Independent Advisor della Commissione Europea dal 1992. Una cosa nota tra gli addetti ai lavori e che mi fu chiara già da principiante è che le aziende quotate in Borsa, ossia praticamente tutte quelle grandi, sono assai deficitarie in fatto di pensiero strategico, essendo concentrate eminentemente sulla loro percezione a breve termine da parte dei mercati borsistici (max 1 anno) .

E’ questa, l’attenuante che concedo alle aziende europee dell’autotrasporto per il loro attuale, isterico e patetico, atteggiamento nei confronti dell’Europa, dopo avere dormito per almeno dieci anni.

Per capirci papale papale: non c’era una Frau Volkswagen che pensasse “Mannaggia, a partire dal 2035 dobbiamo produrre solo auto elettriche. Cosa dobbiamo cominciare a fare nel 2000 (anno in cui era era noto agli esperti) o quantomeno nel 2014 (avviso della UE)?”.
Non c’era il buon padre di famiglia. C’erano solo dirigenti apicali remunerati con (a) fortissimi incentivi monetari in busta e (2) piani di stock options, tutti basati sul venduto e/o profitto dell’anno fiscale. Lo stesso profilo di persone che taroccarono il software delle emissioni diesel, vendendo milioni e milioni di veicoli falsamente descritti e pagando alla fine oltre $25.000.000.000 di risarcimenti e multe solo in America.

Frau e Herr Volkswagen (e Audi, Seat, Škoda, Porsche) non lo avrebbero mai fatto…



PS: Il valore delle azioni dei più grandi player dell’elettrico è da almeno quattro anni superiore a quello di Volkswagen: oro = Tesla, ciano = BYD, scuro = Volkswagen. Ossia, da oltre quattro anni i mercati finanziari pensano che Tesla e BYD siano investimenti più strategici che non quello su VW. Attualmente, il valore complessivamente investito su Tesla è il triplo di quello investito su Volkswagen, nonostante questa abbia cinque volte più dipendenti e stia ancora vendendo il quadruplo dei veicoli.

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Pubblicato: 21 febbraio 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni
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Prosegue la raccolta delle leggende metropolitane che ci dilettiamo a disvelare.

Le voragini che si aprono nelle strade sono un’evidente misura del degrado di Napoli: Non so, può darsi. Però i media americani dicono la stessa cosa di quelle che si aprono a New York, Los Angeles, Chicago, città da noi ancora tenute sul piedistallo.

L’inquinamento a Milano è peggio di quello indiano: Lo dice ogni febbraio IQAir, che per i media italiani è “un sito svizzero” o “un ente svizzero” mentre si tratta di un’azienda di purificatori d’aria. La notizia è riferita specificamente al PM2,5. Diamo un colpo anche alla botte: Dal 2005 al 2023, in Lombardia, le concentrazoni annue medie di PM2,5 sono diminuite, così come dal 2003 sono diminuite la mortalità per cause respiratorie e quella per cause cardiovascolari (i rischi del PM2,5).

I depuratori d’aria domestici (“air purifiers” in italiano) ci salveranno: ll nostro purifier può segnalare una concentrazione di PM2.5 di 100 μg/m³ quando in realtà la concentrazione reale è di 10 μg/m³, o anche il viceversa. (Il limite UE è 25). Se hanno buoni filtri, che costituiscono la parte più nobile e costosa, i purificatori aiutano eccome —anche se per il PM2.5 bisogna fare considerazioni e cernite speciali. Ma le quantità che essi indicano sono tendenze di salita o discesa, non misure credibili.

Le mascherine non servono per il covid: E’ una corbelleria lanciata un anno fa dai media ribattendo uno studio pubblicato su Cochrane ma rivelatosi farlocco nel volgere di pochi giorni. Il New York Times feece ammenda in due settimane ma, come spesso accade, le ritrattazioni furono meno spettacolari della fake news, sicché il danno era ormai fatto. (Legge di Brandolini: La quantità di energia necessaria per smentire una stupidaggine è di un ordine di grandezza maggiore di quella necessaria per produrla). NB: Le maschere servono tanto più quanto meglio aderiscono al volto e, come i vaccini, non annullano la possibilità di contagiarsi: ne diminuiscono la probabilità.

Come avevo previsto nel marzo 2021, dal covid non siamo usciti molto più preparati di prima ad affrontare una futura pandemia.

Siamo anche diventati no-vax: lo si constata ascoltando i discorsi in circolazione fatti sia da ignoranti conclamati sia da laureati in medicina, ossia persone che un tempo erano meno discalculiche di quelle.

I sondaggi d’opinione valutavano nel 2019 che i no-vax duri e puri fossero circa il cinque percento della popolazione e che a questi si aggiungesse un altro venti percento di persone disinformate o preda di paure irrazionali. Guardando al “sondaggio” che si trae dal voto di ieri alla Camera, potremmo concludere che la coorte assomma ormai al sessanta percento degli italiani adulti: su 218 votanti, 132 pensano che G. Conte e R. Speranza siano colpevoli di “non aver vigilato” adeguatamente e di aver “colpevolmente agito” verso la morte di migliaia di italiani.

Voi direte be’ ma quelle sono beghe politiche: pur di distruggere un avversario, i politici possono accusarlo di qualunque cosa. Già: ma il retropensiero della Commissione Covid è quello della vulgata no-vax (***). E’ un penoso marasma della stessa fatta di quello che emerse nel 2008 allorché, per sovvertire una nomina alla presidenza del CNR e sostituirla con un candidato amico, una Grande Armée capitanata da Gabriella Carlucci e sostenuta da agenti segreti di Libero si spinse ad accusare di essere un asino uno dei più grandi fisici italiani, difeso in Commissione Cultura dalla sola Vladimir Luxuria.

Ecco, auguriamoci che “la fabbrica degli ignoranti” di Giovanni Floris (e di Recalcati, Eco, Byung-Chul Han, Nussbaum, Morin, et al.) non ci riservi altro che farse.


*** Se la vulgata no-vax/no-greenpass eccetera fosse stata al governo nel 2020, saremmo morti a milioni. Per esempio, a differenza di quel che fecero il ministero della Salute e il governo tutto, essa non avrebbe ascoltato né l’epidemiologo Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, né Giorgio Parisi (il futuro Nobel, allora presidente dell’Accademia dei Lincei) che, citandolo, a fine febbraio 2020 avvertiva che in assenza di contromisure il 95% della popolazione italiana sarebbe stata infettata entro l’estate. (Come sa qualunque bambino che non sia addestrato da suore no-vax, stare distanti e avere un vaccino sono le due contromisure più importanti avverso un pericoloso patogeno respiratorio)

Ammuine mediatiche

Pubblicato: 30 gennaio 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni, Politica e mondo

Pur augurando all’imputata e soprattutto ai familiari di uscirne presto e bene, trovo indegna la cagnara scatenata dai media italiani intorno al caso della connazionale ammanettata in un tribunale ungherese.

Nell’UE, gli imputati possono, a discrezione di un magistrato, essere incatenati e ammanettati nelle aule di tribunale almeno in Francia, Spagna, Grecia, Romania, e Italia (cfr qui il XVII Rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione). E non parliamo proprio degli USA, dove in tribunale ci vai spesso anche colla palla al piede, pure da bambino.

Trovo che il dibattito in corso sia fondato su miserabile campanilismo, come quando alle Olimpiadi la sera si danno le notizie delle medaglie di legno italiane e si tacciono quelle d’oro degli altri, o quando in Italia la CIA rapisce un cittadino egiziano innocente che viene portato in Egitto e torturato col consenso dei nostri servizi segreti (caso Abu Omar) e nel silenzio nazionale —ma quando l’Egitto lo fa con un italiano allora non vale.

Il campanilismo viene ora usato per trasformare il caso in politico, chiedendo al Presidente del Consiglio italiano di telefonare all’omologo ungherese per chiedergli che, alla faccia della separazione dei poteri, si interponga in un processo penale e sentenzi a favore della nostra concittadina. Una richiesta ridicola oltre che pretestuosa. Se è utile o ragionevole o produttivo che Meloni dica cosa pensa veramente di Orbán, lo è a prescindere da quel che succede a cittadini italiani nei tribunali ungheresi e viceversa.

Credo che abbiano ragione i detrattori di Viktor Orbán a Strasburgo e a Bruxelles, e mi piacerebbe che un giorno non lontano l’Ungheria fosse chiamata a restituire gli aiuti colossali ricevuti dalla UE o, in difetto, a ripristinare lo Stato di Diritto che è stato degradato dal partito Fidesz e dalle sue fanfaluche di bassa lega.

Ma lo Stato di diritto ungherese non è andato a farsi benedire perché una BlackBloc italiana è stata inchiavardata in tribunale a Budapest. Se così fosse, Italia, Francia, Spagna, Grecia, Romania dovrebbero essere fuori dall’UE e gli Stati Uniti d’America all’inferno

Imputato spagnolo
Imputato albanese in Germania

Un carabiniere in assetto antisommossa ha detto in piazza a una manifestante che lui non percepisce Mattarella come proprio presidente, perché non l’ha votato personalmente. Precisa subito l’Arma:

« Con riferimento ai contenuti di un video che circola sui social media e siti d’informazione riportante uno scambio di battute tra una manifestante e un carabiniere impegnato in un servizio di ordine pubblico […], è stata già informata l’Autorità Giudiziaria Ordinaria e quella Militare, e nei confronti del militare, con immediatezza, saranno tempestivamente adottati tutti i provvedimenti necessari, sia di natura disciplinare sia d’impiego, trasferendolo in incarico non operativo».

Sorvolando sulla gracilità della prosa, io vorrei dire che quel carabiniere non va degradato: va educato o, come si dice oggi, formato. Anche perché temo che molte altre persone, dentro e fuori l’Arma, siano prede di visioni così ingenue della democrazia.

Che in democrazia gli eletti dal popolo siano i soli che contano e i più importanti di tutto il resto è una stupidaggine colossale per la quale un tempo non si passava la III Media. Oggi, altro che carabiniere: la senti dai giornalisti, dai dottori, dagli analisti. Il grande Silvio Berlusconi, affossatore della Prima Repubblica (?), la introdusse decenni or sono per sminuire i magistrati, persone che per il semplice fatto di avere un giorno lontano vinto un concorso, si permettevano di perseguitare un eletto dal popolo.

Certo, Silvio parlava pro domo sua e contro quegli specifici magistrati che lo stavano inquisendo e mirava ad arruffianarsi i lettori di Libero, della Verità e di Nicolaporropuntoit. Però diceva di aver studiato al Classico dai salesiani e di essersi laureato alla Statale a pieni voti in giurisprudenza: proprio non gli era possibile rendere più presentabile, più sostenibile la sua reprimenda contro la magistratura? [*]

Ora, è pur vero che due terzi degli adulti non comprendono un testo scritto di moderata complessità e dunque non possono ricorrere a Wikipedia e tantomeno alla Costituzione per capire cos’è la democrazia. Ma chi ha completato la scuola dell’obbligo si è sentito spiegare con dovizia di disegnini e ripetizioni che il sistema politico italiano è, per ragioni di equilibrio, resilienza ed equità, basato sulla divisione dei poteri: il parlamento fa le leggi, il governo conduce il Paese, la magistratura si occupa della giustizia. Solo i membri del parlamento (e gli equivalenti organi legislativi locali) vengono eletti dal popolo.

Ci sono piccole eccezioni a quanto sopra, ma sono tutte previste dalla Costituzione. Così come sono previsti una lunga serie di pesi e contrappesi tutti tesi a massimizzare quella resilienza, quell’equità, quegli equilibri. Anche a un cretino, ne sono convinto, si può spiegare la regola del poker in base alla quale non esiste una combinazione sicuramente vincente: la Massima di Cuori è battuta dalla Minima di Picche, e questa da quella di Fiori…

Ecco, la repubblica italiana è fatta un po’ così. E tutte le sue componenti, dal Presidente al Carabiniere, dall’Insegnante al Dirigente sindacale, da Giorgia Meloni all’ultimo Giudice di pace della più remota località, ne sono rappresentanti ufficiali.

Credere che in democrazia chi conta più di tutti è chi è stato eletto dal popolo, è una corbelleria che ci rivela ignorantissimi. Ed è pericolosa come pensare che ho in mano le carte migliori possibili.


[*] Da notare che qui non c’entra se Silvio avesse ragione o torto in sede giudiziale. Semplicemente, egli avrebbe fatto più bella figura se non avesse finto di ignorare che un magistrato ha tutto il diritto di inquisire un eletto, e che addirittura è obbligato a farlo se gli giunge notizia di un reato penale. Silvio sbagliava perché (a) diseducava i suoi elettori e in un certo senso li chiamava a raccolta intorno a una causa temeraria e poco civile e (b) correva il rischio di essere ritenuto e magari definito somaro dai suoi detrattori, i quali avrebbero potuto pensare che non stesse fingendo.

Mohamed Hassan – Pixabay

Era ora che cominciassero a essere pubblicamente smascherati i limiti dell’intelligenza artificiale in circolazione.

I quali non sono la privacy (🤔), la devianza etica (?), o il pericolo di estinzione dell’Umanità (😂). Sono semmai la montagna di minchiate, dette hallucinations, che l’AI di oggi inventa di sana pianta.

Qui il Corriere riferisce delle proteste lomelline nei confronti di un sito web turistico che si inventa chiese, piazze, e piatti tipici a Vigevano, Mortara, Candia, Lomello, Breme. Si è già per vie legali: come avvertivamo per tempo, il principale rischio posto dall’IA.

Gli addetti ai lavori sono febbrilmente a capo chino sul problema dell’affabulazione (hallucinating tra i politically corrects, making up shit tra i più diretti) nell’IA odierna.

Ma ancora non si intravedono vie risolutive e anzi i più disperati, ma sinceri, tra i costruttori hanno fatto notare come inventare le cose sia un’intima caratteristica costruttiva dei Large Language Models e dei Generative Pretrained Transformers ossia le tecnologie di base dominanti.

Infatti, nel pubblico e tra i commentatori naïf non lo si è ancora capito bene ma la cosa in cui l’AI in stile-ChatGPT eccetera davvero eccelle, è inventare testi, personaggi, immagini, video.

La mia Potëmkin

Pubblicato: 10 gennaio 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni
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Certi umani abissi sono insondabili. Una delle tante mie limitazioni, e tra le più strane, è che non mi piace Amleto, che trovo solo un adorabile finto mentecatto. E non apprezzo o non capisco la grandezza dell’opera.

Questo mi accade dopo aver letto nei decenni cinque traduzioni, insieme beninteso a tutti gli apparati. Fino a ieri mi piaceva solo quella di Eugenio Montale ma oggi sono contento di avere incontrato anche quella di Sergio Perosa per la sempre magnifica Quodlibet (2023).

Eppure non è bastata neanche lei. 😱

Non sono un anglista né un cultore della materia. E senza traduzione, i testi scespiriani mi provocherebbero catastrofici fraintendimenti e scarsa comprensione al di là del senso complessivo («I took a speed-reading course last month. Yesterday I read War and Peace in twenty minutes! It’s about Russia» dice Woody Allen in Love and Death, 1975). Ho letto una dozzina di drammi, in traduzioni —sempre con testo a fronte— solitamente scelte secondo miei personali pregiudizi. Non li ho approfonditi come ho fatto con Amleto. Quasi come Amleto, invece, ho fatto coi Sonetti, dei quali coltivo molte traduzioni anche in francese e che sono tra i miei cinque o dieci testi letterari preferiti.

Sono consapevole della magnitudine dell’opera di Shakespeare, e dell’essere lui, “più che un autore, una vasta e complessa letteratura”, come dice Borges. E se questo non bastasse, ecco qui Perosa citare Terence Eagleton, secondo il quale «si ha la sensazione che Shakespeare avesse familiarità con gli scritti di Hegel, Marx, Nietzsche, Wittgenstein e Derrida». Eh eh.

Il giudizio, poi, di Tomasi di Lampedusa mi influenza ancor più di quello degli studiosi professionali, forse perché la sua Letteratura Inglese non era intesa per la pubblicazione ed egli vi è assai meno interessato allo show off che al confronto con i suoi pochi allievi (ma dotti***). A Shakespeare, Lampedusa dedica settanta pagine ma ad Amleto solo due e mezza, perché «il silenzio è il solo omaggio che gli spiriti inferiori ma onesti possano recare in dono a certe divinità. Né quindi vorrò trasgredire a questo principio parlando a lungo di Amleto».

Per me sono bastonate. E’ pur vero che, dato un artista di questo calibro, forse non è così strano che un dilettante possa capirci poco. Specie, poi, se è gravato da una fastidiosa agorafobia che gli impedisce di incontrare Shakespeare a teatro (vidi solo un Re Lear e un Giulio Cesare, da ragazzo)… Gli Amleto che leggiamo sono copioni per la recitazione, non sono pensati per lettori bensì per attori e spettatori.

Ma davvero a nessuno dei non addetti ai lavori piace Amleto né lo capiscono? Uhm.

Io amo attribuire la mia manchevole connessione con lui al mio difetto di frequentazione teatrale. E temo che se non fosse quella la spiegazione, resteremmo con due sole possibilità, tra le quali sarebbe troppo facile decidere: o Amleto è una cagata pazzesca oppure Paolo è un idiota. (Ho un altro alibi di riserva, che tengo per me perché lo so essere stupido: Amleto è come la meccanica quantistica, nessuno la capisce davvero ma un sacco di gente ne parla a iosa decantandone il fascino).

Risoluto a compiere il supremo sacrificio per colmare la mia assurda lacuna, ho chiesto a Google Bard quali Amleto potranno vedersi in Italia nel 2024. Me ne ha citati quattro, con dovizia di descrizioni, ma li aveva inventati tutti. Alle mie proteste, ha risposto spudoratamente «Sì, è vero. Ho inventato queste quattro produzioni di Amleto per rispondere alla tua domanda. Ho cercato di creare delle interpretazioni originali dell’opera, che esplorassero diversi aspetti del personaggio di Amleto e della sua storia».


*** Ricorda Francesco Orlando, in seguito divenuto grande studioso e ai tempi, diciannovenne, tra i selezionati auditori di Lampedusa: «Per me la cultura in generale era stata fino allora una preziosa ma graduale acquisizione, una conquista di civiltà da accumulare a strati con gli anni, e da tesorizzare come si fa appunto con le cose acquistate o conquistate. In Lampedusa invece —ed in questo la principessa sua moglie gli rassomigliava così da aumentare la mia sorpresa— pareva davvero che la conoscenza minuziosa e il pacato dominio di tre o quattro grandi letterature europee datassero da prima della nascita o al più tardi dall’infanzia. Pareva davvero che facessero parte integrante di una educazione; una educazione altissima sì ma radicata al punto da diventare ovvia ed innata, e che quindi non può essere minimamente oggetto di ostentazione ma solo venire praticata senza pensarci e magari pretesa in egual misura dagli altri». [Ricordo di Lampedusa, 1962. Bollati Boringhieri]

Aggiornamento 2024

Pubblicato: 3 gennaio 2024 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni